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La vera storia della strage di Schio

Schio, popoloso comune del vicentino adagiato nella verde Val Leogra. Qui, nel 1945, la contrapposizione tra fascisti e tedeschi da un lato e partigiani dall’altro, assunse toni assai violenti. Il 16 aprile un reparto delle Brigate Nere uccise in maniera particolarmente feroce il partigiano Giacomo Bigotto. Il 30 dello stesso mese a Pedescala, un piccolo borgo lì nei pressi, i tedeschi fucilarono una sessantina di persone, compreso il parroco del paese, per punire i partigiani che avevano assalito una loro colonna che si ritirava verso Trento.

Ma, se la reazione tedesca era stata abnorme, non troppo oculato appariva l’operato delle formazioni rosse accusate di “sparare e poi sparire”, lasciando la popolazione in balia degli eventi. Anche i partigiani, in verità, non erano rimasti con le mani in mano. Il 29 aprile un’esecuzione sommaria di fascisti si era consumata a Schio, in località Valletta dei Frati. Ai primi di maggio, invece, un gruppo di partigiani prelevò 18 detenuti ristretti nel carcere cittadino e li condusse a Pedescala con l’intento di sopprimerli. Malgrado l’intervento del comando inglese, quattro di loro (un funzionario di banca, due studenti e un capo operaio), accusati di aver fatto parte delle Brigate Nere, furono trucidati. Poi, per fortuna le ostilità cessarono. E con esse le violenze e gli eccidi. O almeno così si credeva. Non si era fatto i conti, infatti, con la truce voglia di vendetta che agitava gli animi dei partigiani. Nella notte tra il 6 e il 7 luglio del 1945, quando la guerra era finita da più di due mesi, un nutrito plotone di partigiani comunisti appartenenti alla brigata garibaldina “Ateo Garemi”, poi confluiti nella polizia ausiliaria, fece irruzione nel carcere di Schio, lì dove oggi si trovano i locali della Biblioteca Comunale. A guidare il commando Igino Piva, detto “Romero”, e Valentino Bortoloso, alias “Teppa”. L’azione era diretta a togliere di mezzo, in maniera sbrigativa, un buon numero di “rognosi cani fascisti”. Nella prigione si trovavano un centinaio di detenuti. Molti niente avevano a che vedere con situazioni di natura politica. Qualche tempo dopo gli inquirenti accertarono che soltanto 27 di essi risultavano compromessi con il regime fascista. La gran parte dei prigionieri, anzi, doveva essere scarcerata e si trovava ancora nello stato di reclusione solo per ritardi burocratici. Ciò malgrado i partigiani vollero compiere egualmente il misfatto. Dopo vivaci discussioni (alcuni, non condividendo l’operazione, si allontanarono) i capi decisero di procedere senza operare alcun distinguo. Furono solo messi da parte una decina di delinquenti comuni. Gli altri furono ammassati in una stanza e bersagliati senza pietà a colpi di mitraglia. Furono uccise 47 persone mentre 7 morirono nei giorni successivi. Altre 17 rimasero ferite più o meno gravemente ma riuscirono a sopravvivere. Quando alcuni scledensi, richiamati dalle esplosioni notturne, giunsero sul posto, si trovarono di fronte ad una scena raccapricciante: un cumulo di cadaveri dilaniati dai proiettili con il sangue copioso che colava sulla scala, sul cortile del carcere per poi sfociare sulla pubblica via. Questo il lungo elenco delle vittime disposto in rigoroso ordine alfabetico: Teresa Amadio, operaia tessile, Teresa Alcaro, operaia, Michele Arlotta, primario dell’ospedale di Schio, Irma Baldi (20 anni), casalinga, Giovanni Baù, commerciante, Quinta Bernardi, operaia, Settima Bernardi, operaia, Umberto Bettini, impiegato, Giuseppe Bicci (20 anni), impiegato, Ettore Calvi, già legionario fiumano, tipografo, Livio Ceccato, impiegato, Maria Dal Collo, casalinga, Irma Dal Cucco (19 anni), casalinga, Anna Dal Dosso (19 anni), impiegata, Antonio Dal Santo, operaio, Francesco Dellai, operaio tessile, Arturo De Munari, tessitore, Settimio Fadin, commerciante, Mario Faggion, autista, Severino Fasson (20 anni), calzolaio, Giuseppe Fistarol, maggiore del genio, Fernanda Franchini, casalinga, Silvio Govoni, impiegato, Adone Lovise, impiegato, Angela Irma Lovise, casalinga, Blandina Lovise, impiegata, Lidia Magnabosco (18 anni), casalinga, Roberto Mantovani, commissario prefettizio, Isidoro Marchioro, commerciante, Alfredo Menegardi, capostazione, Egidio Miazzon, impiegato, Giambattista Mignani, milite della Gnr, Luigi Nardello, cuoco, Giovanna Pancrazio, impiegata, Alfredo Perazzolo, meccanico, Mario Plebani, commerciante, Vito Ponzo, commerciante, Giuseppe Pozzolo, impiegato, Giselda Ridacchia, operaia, Ruggero Rizzoli, ufficiale dell’esercito, Leonetto Rossi (20 anni), studente, Carlo Sandonà, pensionato, Antonio Sella, farmacista, Antonio Slivar, pensionato, Luigi Spinato, portiere, Giuseppe Stefani, impresario, Elisa Stella, casalinga, Carlo Tardiello, studente, Sante Tommasi, impiegato, Luigi Tonti, commerciante, Francesco Trentin, invalido, Giulio Vescovi, ex commissario prefettizio, Ultimo Ziliotto, impiegato, Oddone Zinzolini, rappresentante. Un eccidio immane, inutile, che fece vittime per lo più innocenti. La più grave colpa per alcuni di quei poveretti era di essere stati iscritti, come tantissimi altri italiani durante il ventennio, al partito fascista. Molti altri, invece, neanche avevano la tessera. Come la povera Elisa Stella, casalinga sessantottenne, che aveva affittato un suo appartamento a un partigiano. Poiché l’inquilino non pagava la pigione, la padrona di casa volle far valere le sue giuste ragioni. Allora il tizio pensò bene di denunciarla come pericolosa fascista. Rinchiusa nel carcere di Schio, rimase uccisa in quel tragico 6 luglio. Suscitò molti sospetti poi la morte di Giulio Vescovi, ex commissario prefettizio. Ferito in maniera lieve alle braccia e alle gambe, venne a mancare all’improvviso il 18 luglio. La sua fu catalogata come morte naturale. A quel tempo, però, a Schio girava una voce inquietante secondo la quale “il lavoro iniziato dai partigiani sarebbe stato portato a termine dai medici dell’ospedale”. Voce che faceva il paio con l’altra che si lamentava del numero troppo esiguo dei fascisti ammazzati. L’eccidio ebbe una vastissima eco e provocò generale indignazione. Su pressione delle autorità angloamericane fu avviata un’inchiesta per risalire ai responsabili. Intanto dei 15 presunti autori della strage, ben 8 erano sfuggiti all’arresto rifugiandosi in Jugoslavia. Nell’autunno del 1945 il processo intentato dalla corte militare alleata si concluse con l’assoluzione di due degli imputati presenti in aula. Degli altri cinque, tre vennero condannati a morte (Valentino Bortoloso, alias “Teppa”, Renzo Franceschini e Antonio Fochesato) mentre gli altri due (Gaetano Canova e Aldo Santacaterina) all’ergastolo. Le condanne a morte furono poi commutate nel carcere a vita. I cinque, comunque, scontarono soltanto una decina di anni di prigione. Un prezzo, tutto sommato, lieve per un crimine così aberrante. Nel novembre del 1952 la Corte di Assise di Milano portò a compimento un secondo processo contro gli autori della strage di Schio. Il dibattimento si concluse con otto condanne all’ergastolo di cui sette in contumacia. L’unico imputato presente in aula, Ruggero Maltauro, detto “Attila”, nome che è tutto un programma, consegnato dalla polizia di Tito a quella italiana, finì per scontare solo una minima parte della pena. Gli altri, invece, protetti dall’efficiente organizzazione comunista, avevano trovato rifugio in Cecoslovacchia. Nel 1956, infine, a undici anni da quei tragici fatti, presso la Corte di Assise di Vicenza si tenne un terzo e ultimo processo mirante ad individuare i mandanti della strage. Sul banco degli imputati finirono Pietro Bolognesi, segretario comunale di Schio, e Gastone Sterchele, già vice comandante partigiano della divisione “Martiri della Val Leogra”. Il dibattimento si concluse con un nulla di fatto. Bolognesi fu assolto per insufficienza di prove, Sterchele con formula piena. Un triste ma non sorprendente epilogo per una vicenda che dimostra a quale livello di ferocia poteva giungere la cosiddetta “giustizia partigiana”. Ma che fine hanno fatto i principali responsabili dell’eccidio? “Teppa”, ormai più che novantenne, è stato addirittura insignito nel 2016 della medaglia d’oro al valore della Resistenza (onorificenza poi revocata), anche se nel corso degli anni, roso dai rimorsi, non ha mai omesso di manifestare il suo pentimento per quell’azione così brutale. Quanto a Igino Piva, ossia “Romero”, dopo tanti anni trascorsi da latitante prima in Iugoslavia e poi in Cecoslovacchia (era stato condannato nel 1952 al carcere a vita), nel 1974 ritornò in Italia, giovandosi dell’ennesimo provvedimento di amnistia varato dal nostro governo. Per poi morire a Schio, nel 1982, senza aver scontato neanche un giorno di prigione.