Una ballata popolare per il terremoto del 1915

Sora terremoto

di Fernando Riccardi

Il 13 gennaio del 1915, poche ore prima delle 8.00, una serie di violente scosse telluriche che raggiunsero anche il decimo grado della scala Mercalli, sconvolse una vasta zona dell’Italia centrale con conseguenze catastrofiche sulla Marsica, sull’Aquilano e sulla Valle del Liri. Ingenti i danni materiali e numerosissi­me, quasi 30.000, le vittime. Città come Sora e Avezzano furono rase al suolo dalla potenza devastante del terremoto. “Tutto stritolavasi e cadeva travolgendo torri e chiese in un vortice infernale, case e palazzi cadevano; sembrava volesse sprofondare la terra”: così un attento cronista sorano descriveva il dramma di quel rigido mattino invernale. L’inclemenza del tempo, poi, con pioggia battente e neve, concorse ad aggravare il desolante quadro di distruzione e di morte, impedendo o rallentando le prime con­citate attività di soccorso. La terra tremò anche in tutti i paesi adagiati nella Valle del Liri e nella contigua Valle di Comino, fin sulle vette delle Mainar­de. Danni più o meno evidenti si registrarono a Isola del Liri, Ca­stelliri, Mon­te San Giovanni Campano, Pescosolido, Campoli Appennino, Posta Fibreno, Vicalvi, Villa Latina, Settefrati, San Donato Val di Comino, Broc­­costella, Arpino, Arce, Fontana Liri, Casalvieri, Atina, Alvito, Pici­nisco, Casalattico, Santopadre, Belmonte Castello, Cassino, Acquafondata, Terelle, Vallerotonda, Villa Santa Lucia, Aquino, Piedimonte San Ger­ma­no, Castrocielo, Roccadarce, Pignataro Interamna, Sant’Elia Fiume­ra­pi­do, Roccasecca, San Pietro Infine, Mignano Montelungo. Gli effetti del sisma si fecero sentire, sia pure con minore intensità, anche in molti paesi del ca­ser­tano (Teano, Marcianise, Maddaloni, Calvi Risorta), in alcuni centri sul­­la fascia costiera tirrenica o dell’interno (Mondragone e Sessa Aurunca) e persino in località ancora più distanti dall’epicentro come Itri e il san­tua­rio della Madonna della Civita. La sciagura, perché di questo, in effetti, si trattò, restò ben viva e a lungo impressa nella mente e negli occhi di coloro che si trovarono a vivere quella drammatica circostanza. E, a dimostra­zio­ne di ciò, ecco venire fuori dalle fitte nebbie del passato un’anonima bal­lata popolare nata tra le genti delle città sconvolte dal sisma, che ho potuto ri­costruire, anche grazie all’aiuto di mio padre, attraverso le parole, spesso smozzicate e non sempre com­pren­si­bili, di due arzille vecchiette di Caprile di Roccasecca, più che novantenni, oggi passate a miglior vita, le quali, nonostante il tanto tempo trascorso, ri­cor­davano perfettamente quei tristi momenti. Le due vecchiette erano so­lite intonare all’unisono la canzone, una nenia molto cadenzata e malin­co­nica, sedute su di una panchina della piazzetta di Caprile, quando i miti po­me­riggi autunnali e primaverili invitavano ad apprezzare il tepore dei raggi del sole. La cosa che più colpiva era, da un lato, la tristezza del canto e, dal­l’altro, per quel poco che si riusciva ad intuire, la drammaticità dei fatti che si rievocavano. Decisi allora di saperne di più e così mi rivolsi alle due anziane donne che, subito, mi svelarono l’arcano: la canzone si riferiva al terremoto di Sora e di Avezzano del 1915. Riuscii, superando con non poca fa­ti­ca la ritrosia delle due “cantanti”, a trascrivere su carta il te­sto o, meglio, una porzione di esso: a quanto sembra, infatti, la canzone manca della parte finale. “O misera Avezzano / con tutti i tuoi dintorni / il po­polo italiano / vi pian­ge da quel giorno. / Era graziosa la tua città / era mae­stra di civiltà. / A So­ra un sacerdote stava comunicando / cinque o sei de­vo­te stavano pregan­do; / cascò la chiesa, tutto crollò, / con l’ostia in mano egli restò. / Ad una bam­binella / che era nata muta, / gli venne la favella / per la pau­ra avuta. / Aiuto, mamma, ella gridò, / mamma era morta e lei si salvò. / Duecento gio­vi­netti / sepolti vivi a scuola, / gridavan poveretti / aiuto a squar­cia­gola: / cento lamenti di qua e di là / a chi li sente fanno pietà”. Strofe semplici ma che attestano in maniera palese il dramma vissuto dalle po­po­la­zioni colpite dal sisma. Ma la cosa che stupisce di più, al di là delle tristi vicende trat­teg­giate, è la circostanza che il ricordo di quella tragedia è ri­ma­sto vivo per moltissimo tempo, tanto da giungere, intatto o quasi, fino ai giorni nostri. E ciò è potuto accadere non solo per l’eccezionalità del­l’e­vento ma, anche e soprattutto, perché si è verificato un fatto che merita di essere puntualizzato. La malinconica ballata s’inserì così profonda­men­te nel­la vita e nelle tradizioni popolari del Lazio meridionale da essere into­na­ta, fino a pochi anni fa, dai contadini che, nella coltivazione dei campi o negli altri lavori giornalieri, volevano, con il mesto canto, rendere omaggio alle vittime dell’immane sciagura. E, forse, proprio dalle “oli­va­ro­le” che numerose si recavano a raccogliere le olive sulle terrazze colli­na­ri di Caprile, che le due vecchiette (per la cronaca Ersilia Rezza e Ro­saria Viola) hanno ascoltato e tenuto a mente alcune strofe della canzone. E’ stato grazie soprattutto alla loro memoria ferrea che un pezzo di storia re­lativo ad una vicenda così drammatica non è finito nel dimenticatoio. Noi, per conto nostro, ci siamo solo limitati ad essere semplici cro­ni­sti.

Colui che non sa darsi conto di tremila anni
rimane nel buio e vive alla giornata
J.W. Goethe

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