
Cinquantotto anni fa il disastro del Vajont
di Fernando Riccardi
Quella sera d’inizio autunno, a Longarone, piccolo ma grazioso comune del bellunese, adagiato nella fertile Valle del Piave, gli appassionati di calcio erano tutti radunati nei bar davanti alla televisione (erano pochi allora quelli che si potevano permettere di avere in casa il piccolo schermo) per assistere ad una sfida epica di Coppa dei Campioni: quella tra gli spagnoli del Real Madrid e gli scozzesi del Glasgow Rangers. Era il 9 ottobre del 1963. Alle 22.39, però, la luce improvvisamente si spense: una gigantesca frana di 270 milioni di metri cubi di roccia, staccatasi dal sovrastante monte Toc (che in dialetto friulano significa “marcio”) crollò nel bacino idroelettrico artificiale del Vajont. La qualcosa provocò una gigantesca onda d’acqua alta più di 200 metri che, oltrepassato il muro di contenimento della diga, andò a polverizzare con la sua veemente forza d’urto tutto ciò che incontrava nella sua folle corsa. In un battibaleno Longarone fu spazzato via come una canna al vento. Così come cessarono di esistere paesi quali Pirago, Maè, Villanova e Rivalta. Alla fine si contarono quasi duemila vittime. E, tragedia nella tragedia, si pianse la morte di 487 bambini. Ma quella del Vajont fu una sciagura davvero imprevedibile? Oppure il disastro si sarebbe potuto e dovuto evitare? I lavori per la realizzazione di una diga di sbarramento sul corso del fiume Vajont, ai fini della produzione di energia elettrica, erano iniziati nel 1957 ad opera della Sade (Società Adriatica di Elettricità), che utilizzò anche fondi stanziati generosamente dal governo. Nel 1959 la costruzione dell’invaso era stata ultimata ed era iniziata la delicata operazione di riempimento. Quella del Vajont, con i suoi 264 metri, era a quel tempo la diga più alta del mondo. Una mirabile opera del genio ingegneristico italiano ammirata in ogni angolo del vecchio continente e non solo. Qualcuno, però, non si era lasciato ammaliare da cotanta imponenza e, considerata la conformazione argillosa e non proprio granitica del terreno circostante, oggetto di frequenti frane e smottamenti, riteneva in maniera assai fondata che la gigantesca diga poggiasse su di un equilibrio pericolosamente instabile. Dubbi però che vennero fugati da uno studio dell’Università di Padova: anche nel caso di una frana di proporzioni consistenti i detriti scaraventati nell’invaso avrebbero provocato una onda d’acqua alta al massimo 30 o 40 metri, destinata perciò ad infrangersi senza conseguenza alcuna contro il robusto cemento armato della diga. Un’ipotesi destinata, purtroppo, ad essere smentita tragicamente dai fatti. Ad ogni modo, a puro scopo precauzionale, si decise di diminuire l’altezza dell'invaso portando il livello dell'acqua a 600 metri (il limite massimo era di 725 metri). Nel 1963, però, le precipitazioni piovose furono particolarmente scarse e allora si decise di riempire di nuovo la diga nonostante i rischi derivanti dall’operazione: non si voleva infatti far diminuire troppo la produzione di energia elettrica. E così nel settembre di quello stesso anno il livello dell’acqua raggiunse 710 metri, nonostante una disposizione ministeriale avesse sancito che non si doveva assolutamente oltrepassare quota 655. Immediatamente nella zona iniziarono a verificarsi smottamenti di terreno, scosse di terremoto mentre cupi boati provenivano dalla montagna. Fino a quando il 9 ottobre una frana lunga due chilometri si staccò dal monte Toc e impiegò all’incirca 20 secondi, partendo da 700 metri di altezza, per inabissarsi nell’invaso provocando l’immane disastro. E' stato stimato che l’onda d’urto dovuta allo spostamento d’aria sia stata di eguale intensità a quella generata dalla bomba atomica che gli americani sganciarono su Hiroshima nel corso della seconda guerra mondiale. Inoltre si è calcolato che le centinaia di milioni di metri cubi di acqua che, superato lo sbarramento, si riversarono nella Valle dei Piave distruggendo ogni cosa, raggiunsero la velocità di 100 km orari. Il ministero dei lavori pubblici avviò subito un’inchiesta per individuare le cause che avevano provocato la catastrofe, nominando una commissione di esperti che giunse alle seguenti conclusioni: fu un errore l’aver costruito una diga di quelle dimensioni in una zona non idonea dal punto di vista geologico, l’aver innalzato la quota del lago oltre i margini di sicurezza e, infine, il non aver dato l’allarme la sera del 9 ottobre per attivare l’evacuazione in massa della popolazione residente nelle zone a rischio inondazione. Nel 1968 iniziò il procedimento penale contro 11 imputati ritenuti responsabili del disastro del Vajont. La vicenda processuale si chiuse nel 1971 quando la Corte di Cassazione di Roma condannò l’ing. Nino Alberigo Biadene (uno degli ideatori del progetto) a 5 anni di reclusione e Francesco Sensidoni (funzionario del ministero dei lavori pubblici, sezione dighe, nonché membro della commissione di collaudo del Vajont) a 3 anni ed 8 mesi, riconoscendo la loro responsabilità per la prevedibilità d’inondazione e di frana e per gli omicidi colposi plurimi. A quanto pare, infatti, pur essendo consci del pericolo di frane, avevano pensato di poter in certo qual modo indirizzare la caduta dei detriti nelle acque dell’invaso senza provocare alcun effetto collaterale degno di nota. Un tragico errore di calcolo che provocò la morte di duemila persone. Per cui quella comminata dai giudici fu sicuramente una pena lieve (i due, in effetti, scontarono solo pochi mesi di carcere) per un disastro così sconvolgente. Tutti gli altri imputati restarono assolti da qualsiasi addebito giudiziario. L’ing. Mario Pancini, invece, altro ideatore del progetto, consumato dai rimorsi, si era tolto la vita nel novembre del 1968. Nel 1997 la Montedison (che aveva acquisito la Sade) fu condannata a risarcire i comuni colpiti dalla catastrofe con 55 miliardi di lire. La vicenda si concluse nel 2000 con un accordo per la ripartizione degli oneri di risarcimento danni tra Enel, Montedison e Stato Italiano al 33,3% ciascuno. Oggi la diga del Vajont è ancora lì, spettrale e silente nella sua imponenza, pur essendo ormai priva d’acqua, in disuso e messa in condizione di non nuocere. Quanto a Longarone è stato completamente ricostruito così come gli altri paesi travolti dall’onda di acqua e di fango. Ma il cuore di quella zona si è fermato irreversibilmente quel tragico 9 ottobre del 1963. E non è stata soltanto la fatalità a decretarne la morte.